La corona d’alloro la portava sempre, forse anche al mattino sul pensatoio. Lo narra Svetonio che ce lo descrive, novello maniaco del fitness, dedito ai limiti del fanatismo alla cura della bellezza del corpo. Ossessionato dalla incipiente calvizie cercava di mascherarla con improbabili riporti a loro volta mascherati, e tenuti su, dalla corona del trionfo.
La storia, nella sua ossessione di somigliare ad un fantasy nel quale si celebra una eterna guerra tra il bene ed il male, ce lo passa tra i buoni, e di converso colloca tra i cattivi i suoi nemici, a partire da Pompeo per finire a Bruto e Cassio.
Per poi scoprire che, nella irresistibile ascesa della sua fulminante carriera tra i principi del foro romano, aveva ispirato e partecipato alla preparazione delle due congiure di Catilina, defilandosi abilmente all’ultimo momento, o che la sua elezione a Pontefice Massimo nel 63 a.C. fu dovuta ad una vera e propria compra di voti tra i cittadini romani, pagata voto per voto con copioso denaro sonante.
Espanse il dominio di Roma oltre le Gallie fino ad alcuni territori della Britannia, frenato poi dalla resistenza dei druidi e a sud e ad est nelle terre africane e in quelle che un tempo furono la culla di Alessandro Magno.
Questo bastò e farne un amatissimo dio tra il populus romanus. Il consenso della masse, che non si scalfì neanche in occasione delle concupiscienti relazioni con le bellezze egizie, accrebbe la sua convinzione di essere predestinato a sedere sullo scranno più alto di Roma, e su quello che era diventato già un vasto dominio.
I suoi avversari divennero nemici e furono eliminati perchè considerati intralcio alla sua ascesa e alla sua azione di “miglior governante di Roma allora esistente”.
Demolì il triumvirato e, dopo la sfida lanciata al senato con il varco del Rubicone e il “bellum civile”, fu esclusivamente per la la grande prova di forza militare che ottenne la nomina a dittatore scaturita, infine nel 44 a.C, in quella perpetua di dittatore a vita. Aveva raggiunto il totale dominio su Roma, ma non gli bastava. La sua ambizione (secondo moltissimi storici specie di tradizione britannica) era quella di vedere posata sul suo capo la corona reale. Quest’ultimo atto, che avrebbe sancito anche nella simbologia dopo cinquecento anni di storia la fine della Res Publica romana, fu la goccia che fece traboccare il vaso.
I cattivi Bruto e Cassio, alla guida di una pattuglia di senatori, lo uccisero nella culla della democrazia romana.
Ma Gaio Giulio Cesare aveva ormai tracciato un profondo solco nel quale si inserì Ottaviano che completò l’opera demolendo definitivamente, dopo 500 anni, la repubblica e la democrazia romana, aprendo definitivamente le porte all’assolutismo dell’impero.
Giambattisa Vico parla di corsi e ricorsi storici e se proviamo a collocare quei fatti nella nostra epoca vediamo che forse qualcosa è già successo.
Nei primi anni ’90 l’azione giudiziaria demolisce la prima repubblica, che guarda caso viveva da 50 anni (manca uno zero per fare 500), e con essa il sistema dei partiti, vero volano della democrazia.
Irrompono nella politica personaggi che si sentono predestinati. Iniziano a spostare l’asse gravitazionale dal partito al leader e a considerare questi non più un centro di dialettica democratica, fondata sulle ideologie, in cui il leader è funzionale all’ascesa del partito, ma delle vere e proprie organizzazioni multi-level eaclusivamente funzionali all’ascesa del leader.
Il sistema costituzionale, che regola il funzionamento del parlamento, diventa un legaccio, i partiti piccoli sono un intralcio, ed i parlamentari troppo autonomi. Una somma di ostacoli che limitano l’azione di governo del premier il quale, nella auto celebrazione di predestinato alla guida del paese, comincia a coltivare il teorema dell’uomo solo al comando.
Ed ecco che vengono abolite le preferenze ed il parlamento diventa una pletora di nominati, asserviti ai leader che li scelgono.
Il sistema elettorale viene modificato nel tentativo di cancellare i partiti piccoli e giungere al bipartitismo. Si tentano riforme costituzionali per limitare l’azione del parlamento. Si comincia a pensare (e poi ci si riesce) di abbattere il numero dei parlamentari o abolire una delle due camere per aumentare il potere del governo e del premier.
Non far disturbare il manovratore. Questo è lo slogan. Un vero e proprio disegno per mettere in piedi un processo di demolazione delle garanzie costituzionali e dei pesi e contrappesi politici con il fine di racchiudere nelle mani di un solo uomo il potere assoluto.
Non è stato solo frutto dell’ambizione di un “uno”. C’è stata anche la complicità degli avversari che sognavano di fare quello che voleva fare “l’uno” al posto de “l’uno”.
Rispetto a due millenni fa sono mancate le guerre, le uccisioni. Ma oggi non vanno più di moda. Troppe analogie raccontano che i disegni erano gli stessi o quantomeno simili e i metodi, gli argomenti, la propaganda, le demagogie erano assolutamente identiche.
Oggi come allora una democrazia repubblicana balbettante, incerta nei suoi meccanismi di scelta dei governanti, incapace di assicurare una stabilità di governo, ferita dagli scandali, cede i suoi spazi all’assolutismo dell’uomo solo al comando, con la compiacenza esasperata del popolo.
Allora il processo si completò.
Oggi siamo solo agli inizi ?
Magari Vico saprebbe risponderci.
Una cosa è certa: nella storia, bene e male e buoni e cattivi sono solo un punto di vista.