IL CIGNO DI UTRECHT

per l’eleganza con la quale si muoveva in campo in tutte le sue giocate.
Così fu definito Marco Van Basten, attaccante olandese che dalla fine degli anni ’80 ha imperversato, per tutto il decennio successivo, con le sue fantastiche imprese nel mondo del calcio.
Ha vinto tutto.
Tutto quello che poteva essere umanamente vinto con la sua squadra di club e quasi tutto con la nazionale olandese.
È considerato uno dei giocatori più forti della storia del calcio, per molti il centravanti più forte, sicuramente il più elegante.
Ma non è per le sue imprese pedatorie che oggi lo rammentiamo.
“Troppe partite, i giocatori giocano troppo e alla lunga non reggeranno fisicamente”.
Questa dichiarazione, resa qualche anno fa, quando era a capo del Dipartimento di sviluppo tecnico della Fifa, scatenò un putiferio e gli costò l’incarico.
Erano gli anni in cui l’avidità dei presidenti dei club, ma anche delle organizzazioni internazionali, muovevano per una moltiplicazione della gare per incassare maggiori diritti televisivi e nessuno doveva ostacolare tale progetto.
Quel processo che portò, come succede oggi, a giocare due partite a settimana, ha subito l’effetto prodromico delle dichiarazioni di Van Basten.
Per chi si interessa di calcio sono note le incredibili girandole di infortuni che investono attualmente il mondo del calcio.
Tra l’altro senza eventi traumatici evidenti o rilevanti, giocatori che si fanno male, anche gravemente, corricchiando o in allenamento.
Questo riferimento al rettangolo di gioco ci aiuta ad introdurre un tema ben più vasto che si riflette in comparti ben meno ludici della realtà sociale.
La inarrestabilità del business-show spiega i suoi effetti anche altrove.
Nel mondo del lavoro turni più massacranti per maestranze e dipendenti.
Fabbriche sempre aperte con turni quasi mai gratificati. Negozi aperti la domenica senza ferie o straordinari.
Dipendenti pubblici con il lavoro da casa che si somma a quello d’ufficio.
Ovunque c’è un padrone che vuole guadagnare di più ma pagare di meno.
Ma anche negli investimenti del pubblico e del para-pubblico.
Si chiudono, ospedali, presidi medici, tribunali, uffici del catasto, camere di commercio, sportelli di servizi, tratte ferroviarie o linee di autobus, in una drammatica corsa all’accentramento perchè rami secchi, non produttivi, con poche utenze, dimenticando che certi servizi non sono aziende, legate alla logica del profitto, ma presidi destinati a servire bisogni, in una Italia che è ancora delle municipalità, dei comuni, dei campanili, sparsi tra la dorsale appenninica e le valli alpine, tra le basse padane e le aree interne delle grandi isole. Vi vivono la stragrande parte degli italiani, quasi 50 milioni.
Possono davvero i soldi, la ricerca esasperata del guadagno stravolgere le regole immodificabili della vita?
Possono i soldi cancellare le regole di tenuta fisica di un giocatore, la insopportabilità della fatica di un operaio, di un impiegato, di una commessa?
Può il denaro farci dimenticare che anche il paesino di “roccacannuccia” ha bisogno, della strada, che vi arrivi e parta un autobus, di una guardia medica o di un posto di polizia, perchè il centro più vicino è a 40 km, ma un’ora di viaggio su una strada impossibile?
Se ci sono ancora oggi oppressori e oppressi a cosa sono servite le rivoluzioni per le quali tanto abbiamo sudato e faticato sui libri di scuola?
Questo rapporto dell’uomo così servile dinanzi al dio denaro c’è sempre stato?
Questa infernale macchina del guadagno è sempre esistita?
Dobbiamo forse tornare a una vita primitiva per riscoprire certi valori?
L’angosciante sensazione che nulla è mutato e nulla muterà a volte opprime.
A volte invece con piccoli movimenti riusciamo ad adattarci tra gli angusti e laceranti spigoli della caverna dell’esistenza illudendoci di stare comodi. Si chiama rassegnazione.